CAPITOLO 3

L’APOSTOLO

 

3.a   La profezia.

 

Come le corde di uno strumento musicale toccate dalla mano di un artista rispondono immediatamente emet­ten­do il suono voluto e raggiungono l’effetto desiderato, così anche Saulo, toccato nelle corde più intime del suo essere dal Maestro supremo, rispose immediatamente in com­pleto accordo alla volontà del suo Creatore.

«Saulo, Saulo, perché mi perseguiti?» chiese l’appari­zio­ne divina: «Io son Gesù che tu perseguiti».

 

Tutto durò soltanto alcuni istanti, ma questi furono ab­bastanza per trasformare l’acerrimo nemico dei cristiani nel più fedele servitore di Cristo. Il cambiamento radicale si manifestò in quegli stessi mo­menti in due maniere:

  • L'attitudine di sottomissione, di u­miltà assunta da Paolo in quella occasione
  • e le sue parole.

 

Per prima cosa, egli riconobbe Gesù come Signore; poi, con sincerità commovente chiese: «Che debbo fare?» (Atti 22:10).

 

Ora egli era pronto ad obbedire a qualunque comando e Gesù cominciò a guidarlo: «Alzati, va’ a Damasco, e là ti saranno dette tutte le cose che ti è ordinato di fare» (Atti 22:10).

 

Fedele alla Sua promessa, Gesù, dopo tre giorni, mandò Anania a Saulo e questi gli spiegò da parte del Signore tutte le cose per le quali era stato scelto.

Per prima cosa Anania, nel presentarsi a Paolo, gli disse che era stato mandato da Gesù che gli era apparso sulla via di Damasco.

Così Saulo seppe per certo che tutto ciò che stava acca­den­do era vero e non frutto della sua fantasia, oppure effetto del sole cocente del deserto, o altre ragioni.

 

Anania non avrebbe potuto sapere in nessun'altra ma­niera della sua esperienza e tanto meno sapere l’identità dell'apparizione se Gesù stesso non fosse apparso anche a lui.

Poi Anania comunicò a Saulo il piano di Gesù per la sua vita.

 

Il racconto della sua conversione viene narrato in tre ca­pitoli degli Atti degli apostoli e in ognuno viene presen­tato sotto un aspetto differente.

L’idea essenziale è la medesima, seppure i particolari va­riano. Così è anche della profezia circa il suo futuro mi­nisterio al servizio di Cristo.

  • Nella prima narrazione fu Gesù a parlare ad Anania: «Egli è uno strumento che ho scelto per portare il Mio Nome davanti ai popoli, ai re, e ai figli d'Israele; perché Io gli mostrerò quanto debba soffrire per il Mio Nome» (Atti 9:15,16).
  • Nel secondo racconto Saulo, testimoniando ai giudei in Gerusalemme, omise il particolare del colloquio di Anania con Gesù e ripeté direttamente quello che Anania gli disse in quel giorno: «Il Dio dei nostri padri ti ha destinato a conoscere la Sua volontà, a vedere il Giusto e ad ascoltare una parola dalla Sua bocca. Perché tu Gli sarai testimone davanti a tutti gli uomini delle cose che hai viste e udite» (Atti 22:14,15).
  • Nel terzo, Saulo, testimoniando al Re Agrippa, sorvolò sui diversi particolari della sua conversione e ripeté la sostanza del messaggio di Gesù per lui, come se l'avesse udit0 direttamente e senza alcun intermediario - i particolari non avrebbero interessato il re, anzi il racconto di un’apparizione divina lo avrebbe colpito di più - «per questo ti sono apparso: per farti ministro e testimone delle cose che hai viste, e di quelle per le quali ti apparirò ancora, liberandoti da questo popolo e dalle nazioni, alle quali Io ti mando per aprire loro gli occhi, affinché si convertano dalle tenebre alla luce e dal potere di Satana a Dio, e ricevano, per la fede in Me, il perdono dei peccati e la loro parte di eredità tra i santificati» (Atti 26:16-18)

 

 

3.b  L’apostolo dei gentili.

 

Se nelle tre narrazioni della visione di Paol0 vi sono delle differenze nei particolari, non ci sono conflitti nelle idee principali. Anzi una cosa risulta chiara: Saulo era stato eletto da Dio per portare in maniera speciale l’evangelo ai gentili.

 

Egli doveva essere uno strumento speciale per portare l'annuncio della salvezza ai vari p0p0li. Questa profezia si avverò in ogni suo particolare e basandosi principalmente su tale esperienza, Saulo avanzò la sua affermazione d’a­ver ricevuto direttamente dalle mani di Cristo ed in ma­niera speciale, il ministerio e l'apostolato presso i gentili.

 

Durante tutta la sua vita, in diverse occasioni, questa sua affermazione venne messa in dubbio per screditarlo in un primo tempo presso gli altri apostoli e più tardi presso le chiese sorte per mezzo del suo ministerio.

 

Anche per noi d’oggi questa questione deve essere risolta onde poter considerate Saulo nella sua giusta luce. 

Ha egli usurpato il titolo di apostolo? Oppure, ha egli ve­ramente ricevuto il diritto di usarlo?

 

Passiamo a considerare il problema.

 

Prima di tutto, che cosa significa il nome apostolo? Chi aveva il diritto di chiamarsi tale?

 

Il sostantivo apostolo significa: messo, ambasciatore, uno mandato come messaggero, o agente, o come inviato spe­ciale.

 

Nel Nuovo Testamento questo era il nome speciale dato ai dodici discepoli scelti da Gesù per mandarli a predicare l’evangelo ed esser con Lui durante tutto il corso del Suo ministerio sulla tetra.

 

Dunque, un apostolo era una persona mandata da Gesù Cristo.

 

Le qualificazioni di un apostolo sono riassunte in Atti 1:21-22, quando, in occasione della elezione del successore di Giuda, Pietro disse: «Bisogna dunque che tra gli uomini che sono stati in nostra compagnia tutto il tempo che il Signore Gesù visse con noi a cominciare dal battesimo di Gio­vanni fino al giorno che Egli, tolto da noi, è stato elevato in cielo, uno diventi testimone con noi della Sua risurrezione»

 

Inoltre questi dovevano essere stati scelti da Gesù me­de­simo e, implicitamente, avessero potestà d’operar mira­coli.

 

La scelta di Gesù è presente anche nell’elezione del suc­cessore al posto di Giuda Iscariota, perché quando Bar­sabba Giusto e Mattia furono presentati al Signore, gli undici «in preghiera dissero: “Tu, Signore, che conosci i cuori di tutti, indicaci quale di questi due hai scelto per prendere in questo ministero apostolico il posto che Giuda ha abbandonato per andarsene al suo luogo» (At­ti 1:24,25).

 

Nessun’altro aveva diritto di chiamarsi apostolo. Come poté, allora, Paolo avanzare il diritto di appropriarsi di tale titolo?

 

Proviamo ad esaminare, prima di tutto, cosa pensava Saulo stesso in proposito onde poter avere un’idea più precisa del problema.

 

Molti anni dopo la sua conversione, egli, ancora molto sen­sibile su questo punto della sua esperienza, dichiarò in una delle sue lettere: «Io sono il minimo degli apostoli, e non sono degno di essere chiamato apostolo, perché ho per­seguitato la chiesa di Dio. Ma per la grazia di Dio io sono quel­lo che sono; e la grazia sua verso di me non è stata va­na; anzi, ho faticato più di tutti loro; non io però, ma la grazia di Dio che è con me» (1° Corinzi 15:9-10).

 

Dunque, egli si riconosceva indegno di un tale titolo, ma im­mediatamente dopo affermò che Dio volle così ed e sot­tinteso che egli non avrebbe potuto fare altro che accettare la volontà divina.

Nell’introduzione di altre lettere Paolo continuò ad af­fermare il suo apostolato e, a volte, spiegò come pervenne a tale ministerio.

 

Nell’epistola agli Efesini (1:1) Saulo scrisse che ciò era stato per volontà di Dio: «Apostolo di Cristo Gesù per volontà di Dio».

 

A Timoteo spiegò che ciò era stato comandato da Dio: «Apostolo di Cristo Gesù per comandamento di Dio» (1° Timoteo 1:1).

 

Ai Galati (1 :1) dichiarò con enfasi: «Apostolo (non dagli uomini né per mezzo d'alcun uomo, ma per mezzo di Gesù Cristo...)», «per mezzo del quale noi abbiamo ricevuto grazia e apostolato», aggiunse nell’epistola ai Romani 1:5. «A me, dico, che sono da meno del minimo di tutti i santi, è stata data questa grazia di recare ai gentili il buon annuncio delle non investigabili ricchezze di Cristo», concluse senza alcun dubbio in Efesi 3 :8.

 

Come abbiamo visto, dunque, Saulo sapeva di non aver diritto a tale titolo, umanamente parlando, ma altresì egli era ben convinto di non aver usurpato tale onore, piut­tosto gli era stato dato, in via eccezionale, da C0lui che poteva concederlo.

 

E non solo egli sapeva di averlo rice­vuto, ma basava questo diritto su delle esperienze precise ed irrefutabili.

 

Oltre alla grazia speciale concessagli egli aveva le qua­li­ficazioni necessarie per poter essere consi­derato almeno alla pari degli altri dodici apostoli.

 

Consideriamole alcune.

 

 

3.c     Le qualificazioni dell’apostolo.

 

Alcuni potevano contestargli quel titolo perché affer­ma­vano che Saulo non aveva mai visto il Signore Gesù.

 

A quest'accusa Pa0l0 rispose enfaticamente rivolgendo a costoro una domanda definita: «Non ho io veduto Gesù, il Signore nostro?» (1° Corinzi 9:1).

La risposta che Paolo s’aspettava era: «Sì, egli l’ha ve­du­to». Ma quando aveva egli visto Gesù? L’aveva visto prima della crocifissione?

Non abbiamo prove ass0lute che possano farci affermare con sicurezza una tale ipotesi.

Ciò poco importa, però, perché Saulo vide sicuramente il Signore il giorno della sua conversione sulla via di Da­masco e altre volte più tardi.

 

Infatti allo stesso gruppo di uomini a cui aveva rivolto la domanda: «Non ho io veduto Gesù, il Signore nostro?» egli ricorda le apparizioni di Gesù ai suoi discepoli e tra le altre elencò anche la sua: «...Poi apparve a Giacomo; poi a tutti gli apostoli; e, ultimo di tutti, apparve anche a me, come all’aborto; perché io sono il minimo degli apostoli» (1° Corinzi 15:7-9).

 

Gesù aveva agito in maniera veramente eccezionale nei con­fronti di Paolo. Si era fatto vedere da questo nuovo discepolo, l’aveva scelto, chiamato ed incaricato di andare principalmente ai gentili.

 

Tutto questo risulta chiaramente dai tre racconti della sua conversione riportati dagli Atti degli apostoli.

 

«Colui che aveva operato in Pietro per farlo apostolo della circoncisione aveva anche operato in me per farmi a­postolo dei gentili», concluse  Saulo nell’epistola ai Ga­lati 2:8.

 

Questa chiamata spiegatagli al principio del suo ministerio trovò un’altra conferma e ripetizione qualche anno dopo; in visione Paolo vide di nuovo Gesù che gli ripeté: «Va', perché Io ti manderò lontano, ai gentili» (Atti 22:21).

 

Inoltre è facile constatare quante rivelazioni straordinarie e quale potestà d’operar miracoli erano state date a lui direttamente da Dio.

 

Gli altri apostoli, dinanzi a tante ed irrefutabili prove, non poterono far altro che riconoscere l'apostolato di Saulo.

 

Questo riconoscimento avvenne precisamente nella con­fe­renza di Gerusalemme descritta negli Atti, capitolo 15 e in Galati, capitolo 2.

 

« ...Passati quattordici anni, salii di nuovo a Geru­sa­lem­me... E vi salii in seguito ad una rivelazione, ed esposi lo­ro l’evangelo che io predico fra i gentili, ma lo esposi pri­va­tamente ai più ragguardevoli, onde io non corressi o non avessi corso invano... Ma quelli che godono di parti­co­lare considerazione… quelli, dico, che godono maggior considerazione non m'imposero nulla di più; anzi, quan­do videro che a me era stata affidata l’evangelizzazione de­gli incirconcisi, come a Pietro quella dei circoncisi... e quando conobbero la grazia che m'era stata accordata, Gia­como e Cefa e Giovanni, che son reputati colonne, det­tero a me... la mano d’associazione perché noi andassimo ai gentili» (Galati 2),

 

In questa conferenza vi sono da notare almeno tre cose importanti.

 

 Prima: Pietro affermò di aver avuto una rive­la­zio­ne spe­ciale riguardo la conversione dei pagani.

 

L'evangelo era per tutti ed egli fu il primo ad annunziarlo a Cor­nelio, un centurione romano, ed a battezzarlo.

Tuttavia, dopo questa esperienza egli si ritirò nella linea di con­­dotta tenuta fino a quel momento: cioè predicare l’e­van­gelo ai giudei.

 

Se Pietro aveva ricevuto per primo questa rivelazione, è al­tresì vero che questo ministerio non fu affidato a lui, ma a Saulo.

 

A quest’ultimo, che aveva fatto così tanto per disperdere i cristiani di Gerusalemme - ed anche in questo Dio si era usato della sua attività, poiché il piano di salvezza per tutto il mondo fu in questa maniera allargato - a Saulo, dunque, dopo la conversione venne affidata l’opera di evange­liz­za­zione dei gentili.

 

 

 Seconda osservazione: Saulo continuò ad insis­tere  che il suo ministerio era completamente indipendente dal riconoscimento dei dodici e dipendeva soltanto da Co­lui che lo aveva chiamato e lo aveva mandato alle nazioni.

 

 

v Terza: egli rivendicò per sé un posto allo stesso li­vello di tutti gli altri apostoli e in quella conferenza egli trattò il problema con la stessa autorità ed alla pari degli altri dodici.

«...In nulla sono stato da meno di cotesti sommi apostoli, benché io non sia nulla. Certo, i segni dell'apostolo sono stati manifestati in atto fra voi nella perseveranza a tutta prova, nei miracoli, nei prodigi e opere potenti» (2° Corinzi 12:11,12).

«Anzi, ho faticato più di loro tutti; non già io, però, ma la grazia di Dio che e in me»  (1° Corinzi 15:10).

 

 

3.c     Obiezioni al suo apostolato.

 

Intimamente unita alla questione del suo apostolato veniva messo in dubbio e messo in discussione anche il messaggio dell'evangelo che Paolo predicava.

 

Infatti, da diversi accenni nelle sue lettere, notiamo che quando e dove Saulo difendeva il suo ministerio egli doveva difendere anche il suo evangelo.

 

Consideriamo alcuni dei passi che ci parlano più direttamente su questo soggetto.

  • Nella seconda lettera ai Corinzi, capitoli 10 e 11 egli difese la propria autorità apostolica e mise in guardia contro quelli che annunciavano «un vangelo diverso».
 
  • Nei primi due capitoli dell'epistola ai Galati affermò che l’apostolato gli era stato dato da Gesù direttamente ed il vangelo da lui annunziato non l’aveva « ...imparato da alcun uomo, ma... ricevuto per rivelazione di Gesù Cristo»

 

  • Agli Efesini, capitolo 3, difese ancora una volta il suo ministerio e le dottrine predicate.

 

  • Così fu anche nelle altre epistole: Colossesi 1,2; 1° Tessalonicesi 2 e 1° Timoteo 1.

 

L'attacco continuo e spietato alla sua autorità apostolica veniva specialmente da un gruppo di giudei convertiti alla fede cristiana, i quali volevano che le leggi giudaiche venissero imposte anche ai gentili convertiti.

Lo stesso messaggio cristiano era stato concepito nel seno del Giudaismo e naturalmente aveva portato con sé molte delle caratteristiche di quest’ultimo.

 

Gesù non aveva dichiarato troppo apertamente che i Suoi seguaci dovevano rimanere estranei a questa religione: Egli aveva detto che era venuto per adempiere, non per distruggere la legge.

 

Invece, il messaggio predicato da Paolo era scevro da quegli elementi giudaici che erano stati aggiunti al vangelo di Cristo e perciò egli veniva spesso accusato di predicare un vangelo differente e non conforme alle intenzioni del Cristo.

Questo conflitto era alimentato, principalmente da dei farisei convertiti alla nuova dottrina (Atti 15:5), i quali, avendo portato con loro tutto il bagaglio delle leggi e delle tradizioni giudaiche, affermavano che bisognava comandare ai gentili di osservare anche quelle leggi particolari date da Dio ai giudei.

Paolo aveva liberato il suo messaggio da questa schiavitù agli elementi materiali della legge e predicava un vangelo di grazia, di fede e di libertà spirituale in Cristo.

 

Questi «falsi fratelli», come li definì Paolo in Galati 2:4, obiettavano a questa innovazione e, causa i loro scrupoli e la loro insistenza, rischiarono di far nascere una divisione fra i cristiani.

 

In altre parole il problema era questo: dovevano i gentili convertiti dal paganesimo arrivare alla salvezza offerta dal Cristo passando attraverso il giudaismo e sottomettendosi alle leggi giudaiche come la circoncisione, l’osservanza del sabato, e così via?

 

Per un giudeo convertito era facile continuare ad osservare le leggi e le tradizioni. Queste erano ormai divenute come una seconda natura per loro.

Ma per tutti i greci, i romani e gli altri popoli, sarebbero state come una schiavitù ed un giogo pesante ed impossibile da osservare (Confr. Atti 15:10).

Contro questo asservimento dei gentili alla legge di Mosè, Paolo combatte sempre e con tutte le sue forze predicando la buona novella, l’evangelo della libertà in Cristo.

 

A questo punto sorgono diverse questioni circa l’evangelo predicato da Paolo.

  • In che cosa consisteva esso?
  • In quali cose differiva da quello predicato dagli altri apostoli?
  • Come, quando e da chi lo ottenne?

 

A questi interrogativi risponderemo nelle prossime pagine.

 

 

3.d    Il suo evangelo.

 

Nella sua epistola ai Galati (2:1,2) Paolo scrisse: «Passati quattordici anni, salii di nuovo a Gerusalemme con Barnaba, prendendo anche Tito con me. E vi salii in seguito ad una rivelazione, ed esposi loro l’evangelo che io predico fra i gentili, ma lo esposi privatamente ai più ragguardevoli».

In Romani 2:16 aggiunse: «Tutto ciò si vedrà nel giorno in cui Dio giudicherà i segreti degli uomini per mezzo di Gesù Cristo, secondo il mio evangelo».

Queste ed altre espressioni simili ci farebbero supporre che il messaggio predicato da Paolo fosse veramente differente da quello proclamato dagli altri.

 

Ma quelle espressioni: «L’evangelo che io predico fra i gen­­tili», «secondo il mio evangelo» non dovrebbero essere accentuate più di quello che l’autore stesso intendesse.

 

Infatti ritroviamo quasi le stesse espressioni altrove nel Nuovo Testamento e non diamo soverchia importanza ad esse poiché sappiamo di avere dinanzi a noi lo stesso messaggio cristiano: «Evangelo secondo Matteo», «Evan­ge­lo secondo Marco» e così via.

 

Se dovessimo dare a queste espressioni degli evangelisti lo stesso valore che alcuni vogliono attribuire a quelle di Paolo, allora dovremmo concludere che non esiste un solo vangelo, ma molti e che questi siano differenti l’uno dall'altro.

 

Consideriamo, invece, senza pregiudizi l'intero soggetto e vedremo quale è la differenza reale, se ne esiste una.

 

Premettiamo che siamo consci del fatto che il messaggio predicato da Paolo, le sue lettere e l’opera svolta da lui presentano delle caratteristiche speciali.

 

Queste rispecchiavano il carattere forte, la spiccata personalità dell'apostolo, ma non erano in contrasto con l’opera ed il messaggio degli altri apostoli.

Piuttosto il lavoro dell'a­postolo dei gentili completava quello degli altri apostoli.

Pensiamo a quanto limitata ed incompleta sarebbe stata l’opera del Cristo nel mondo se Paolo non avesse portato l’evangelo ai gentili! Oggi avremmo potuto considerare il Cristo come il Salvatore dei giudei, principalmente, e non il Salvatore del mondo.

 

Premesso questo, passiamo alle altre considerazioni.

Paolo uomo intelligente, profondo osservatore e preciso studioso certamente doveva già conoscere, anche prima della sua conversione, gran parte delle credenze dei cristiani.

 

Per poter discutere con loro e per poterli combattere doveva senz'altro considerare tutto ciò che essi credevano.

 

Infatti è proprio chi conosce d'essere battuto negli argomenti, non trovando migliore arma per continuare la discussione, che perde il controllo di sé e manifesta la sua ira.

 

Nel caso di Paolo questo deve essere avvenuto nel giorno che Stefano batté tutti i suoi avversari negli argomenti da lui esposti.

Questo valoroso ed intelligente diacono della chiesa cristiana aveva avuto la meglio nella discussione coi giudei circa la messianicità di Cristo, ed i giudei non potendolo battere con gli argomenti lo abbatterono con la forza.

 

Questo episodio di intolleranza religiosa divenne tipica e Paolo, quando non poteva far rinnegare ai cristiani la loro fede nel Cristo, li perseguitava mettendoli in prigione ed a morte.

 

Dopo la sua conversione, quasi immediatamente, Paolo cercò di restare solo per poter pensare ed esaminare attentamente la sua nuova posizione.

 

Nella sua epistola ai Galati, capitolo 1, difendendo ancora una volta la legittimità e l’indipendenza del suo apostolato, espose ciò che egli fece immediatamente dopo la sua conversione.

«Quando Iddio, che m’aveva appartato fin dal seno di mia madre e m’ha chiamato mediante la sua grazia, si compiacque di rivelare in me il suo Figliuolo perché io lo annunziassi fra i gentili, io non mi consigliai con carne e sangue, e non salii a Gerusalemme da quelli che erano stati apostoli prima di me, ma subito me ne andai in Arabia».

 

In quale parte dell’Arabia andò egli? È impossibile saperlo perché egli non lo disse. Ma possiamo facilmente supporre che egli andò nel deserto dell’Arabia.

 

Già altri grandi uomini di Dio come Mosè, Elia, quando si trovarono in situazioni spirituali particolari andarono in questo deserto ed essi ricevettero delle manifestazioni speciali da parte di Dio.

Anche Giovanni il Battista e Gesù, prima di incominciare il loro ministerio, si ritirarono nel deserto.

 

Perché andò Paolo nel deserto? Cosa voleva fare?

Non sappiamo di preciso, ma probabilmente andò per pregare, meditare solo con Dio. Chissà che egli si sia spinto fino al Monte Sinai sperando segretamente di aver qualche altra rivelazione maggiore?

 

Ad ogni modo, Paolo non andò da nessuno e in nessuna scuola di quel tempo, ma andò là dove poteva restare assolutamente solo con Dio per riflettere circa l’evento soprannaturale della apparizione di Gesù.

 

Certamente avrà preso con sé le Sacre Scritture per investigarle profondamente e riconsiderare tutte quelle profezie che riguardavano il Messia.

 

Qui comprese che il Vecchio Testamento era stato per lui come un libro sigillato, ma ora i suoi occhi erano stati aperti e videro che i profeti avevano predetto tante cose del Cristo: la Sua nascita, le Sue sofferenze, la Sua morte e la Sua risurrezione.

Scoprì che Dio aveva promesso ad Abramo che nella sua progenie tutte le nazioni avrebbero trovato salvezza.

Isaia aveva profetizzato una salvezza universale nel Messia. Allora comprese ancora meglio che questi ed altri profeti avevano ragione e che il Cristo aveva sempre affermato la verità.

 

Quanto restò Paolo nel deserto? Una frase della sua epistola ai Galati afferma: «Me ne andai in Arabia; quindi tornai di nuovo a Damasco. Dipoi, in capo a tre anni, salii a Gerusalemme per visitare Cefa... ».

 

Questo riferimento a «tre anni» sembra indicare il periodo di tempo trascorso dal momento della conversione al giorno che s'incontrò coi fratelli di Gerusalemme. Così in questi tre anni egli predicò in Damasco appena convertito, si ritiro nell’Arabia e ritornò a predicare in Damasco fino al giorno che dovette fuggire.

 

Egli restò abbastanza tempo nel deserto, meditando così tanto, scoprendo molte cose nelle Scritture e ricevendo rivelazioni sufficienti da poter affermare: «Io vi dichiaro che l'evangelo da me annunziato non è secondo l’uomo; poiché io stesso non l’ho ricevuto né l’ho imparato da alcun uomo, ma l’ho ricevuto per rivelazione di Gesù Cristo» (Galati 1:11,12).

 

«Quanto poi a quelli che son ritenuti più ragguardevoli… cotesti, dico, che son più ragguardevoli, non aggiunsero nulla di nuovo a quello che io predicavo; anzi, quando eb­bero veduto che l’evange­lizza­zione degli incirconcisi era sta­ta affidata a me ... Giacomo, Cefa e Giovanni, che son re­putati colonne, dettero a me ed a Barnaba la mano in segno di associazione, perché andassimo ai gentili»*.

 

* Traduzione secondo IL NUOVO TESTAMENTO tradotto dal testo originale e corredato di note e di prefazioni. Società editrice, FIDES ET AMOR, Firenze, p. 393. Galati 2:6-9.

 

Dunque, se gli apostoli non ebbero nulla da aggiungere alla sua conoscenza del Cristo, ciò significa che Gesù aveva ammaestrato Paolo direttamente attraverso delle rivelazioni, come poc'anzi abbiamo visto.

 

Come Gesù rivelò a Giovanni nell’isola di Patmos le molte cose descritte nel libro dell’Apocalisse, così forse deve essere stato con Paolo nel deserto.

Gesù deve averlo ammaestrato direttamente in vista del compito speciale che attendeva Paolo, come apostolo dei gentili.

 

È dunque il vangelo predicato da Saulo veramente differente da quello predicato dagli altri? No!

 

Se gli apostoli non ebbero nulla da aggiungere a quello che Paolo conosceva egli, però, poté controllare che le sue conoscenze e le sue conclusioni erano simili a quelle degli altri seguaci del Cristo. Gli insegnamenti concordavano.

 

Se Pietro e Giacomo poterono raccontare a Paolo qualche particolare della vita terrena di Gesù, egli almeno nelle linee essenziali, la conosceva già. 

Eppoi, più che su la vita terrena del Cristo, Paolo si soffermava a considerare molto di più la vita risuscitata e glorificata del Cristo.

 

Gli evangeli presentano soltanto una semplice biografia della vita di Gesù sulla terra, le Sue parole, le Sue opere.

 

Ma queste sono soltanto una parte dell’evangelo. Gesù stesso aveva affermato: «Molte cose ho ancora da dirvi; ma non sono per ora alla vostra portata» (Giovanni 16:12). Così Paolo aggiunge le altre cose che furono rivelate a lui.

 

Egli non scrisse tanto dei fatti della vita terrena di Gesù, o dei Suoi insegnamenti, perché egli scrisse a persone che già conoscevano queste cose. Accennò soltanto brevemente a queste.

Piuttosto egli cominciò a descrivere la vita di Cristo là dove gli altri avevano terminato, cioè dalla risurrezione e continuò sviluppandola e dandogli il significato profondo che es­sa aveva già acquistato fin dal principio e traendone le conclusioni necessarie: Cristo era già nel principio, coeterno col Padre e con lo Spirito Santo; venne in terra per compiere l'opera di redenzione e ritornò alla gloria del cielo.

 

In 1° Timoteo 3:16 Paolo condensa cosi tersamente l'evangelo da lui predicato: «Colui che è stato manifestato in carne, è stato giustificato nello spirito, è apparso agli angeli, è stato predicato fra i gentili, è stato creduto nel mondo, è stato elevato in gloria».

 

Nessun altro evangelista aveva saputo condensare in così poche parole e così chiaramente tutte queste idee riguardanti la vita del Cristo.

La grande mente di Paolo aveva meditato oltre la semplice vita terrena del Cristo ed egli aveva predicato le cose conosciute, o presentite dai cristiani, ma che non erano ancora state esposte con chiarezza.

 

Tutti gli scrittori del Nuovo Testamento, compreso Paolo, non ci presentano più di un vangelo, ma uno solo ed intero, soltanto visto da uomini differenti e descritto in termini che lasciano scorgere quello che essi credevano, sentivano e predicavano.

 

Se qualche volta la loro personalità traspare dando un particolare tono, o colore al messaggio da loro annunziato, questo riafferma ancora una volta la veridicità della rivelazione di Dio, differente in ciascun caso eppure in armonia con tutti gli altri.

Possiamo allora concludere questo capitolo affermando senza esitazione che Paolo era stato prescelto da Dio, eletto per un’opera particolare, chiamato ad essere un vero apostolo di Gesù Cristo, dotato di doni e  rivelazioni speciali.

 

La sua conversione e conseguente vita al servizio del Mastro, d’altra parte, è una conferma continua alla sua elezione ad essere apostolo delle genti.